Dopo esserci addentrati nelle pieghe oscure dell'animo umano, abbiamo cercato un po' di leggerezza nella produzione di una delle maestre americana dell'epica delle piccole cose, Elizabeth Strout. Molti di noi, soprattutto dopo aver letto Olive Kitteridge, romanzo con il quale si è aggiudicata il premio Pulitzer, conoscevano già la sua prosa asciutta e tagliente in grado di disegnare personaggi di grande spessore, le sue incursioni nell'apparente banalità del quotidiano, la sua abilità nel restituirci sfumature e sbavature della provincia americana. Abbiamo voluto metterne alla prova la tenuta con questo romanzo ambientato, ancora una volta, nel piatto Midwest.
Pubblicato nel 2017 per Random House, nello stesso anno viene tradotto da Susanna Basso per Einaudi.
Barack Obama ha incluso questo romanzo nella lista dei libri più belli letti nel 2017.
La storia
Dopo essersi affrancata dalla vita di provincia per seguire il richiamo della grande città e assecondare così la vocazione alla scrittura, dopo aver inevitabilmente allentato ogni relazione con familiari ed amici d'infanzia, Lucy Burton torna a far parlare di sé. Nell'unica libreria della piccola cittadina in cui è nata, compare in vetrina la sua ultima fatica letteraria che promette di svelare senza reticenze non solo la sua storia di riscatto ma anche aneddoti, rimpianti e miserie di tutti coloro che con lei hanno condiviso gli anni dell'infanzia e della giovinezza. Secondo una struttura già sperimentata in altri romanzi, questo racconto corale costruisce una biografia collettiva attraverso storie che dialogano tra loro e si collocano su un'ideale linea di continuità con le vicende narrate in Mi chiamo Lucy Burton.
"Agli occhi di Charlie questo pareva confermare la futilità dei sogni proposti nelle vetrine del grande magazzino che aveva superato poco prima, nella piccola città che avevano trovato insieme a una mezz'ora d'auto da Peoria: uno può anche comprare uno spazzaneve a motore o un bel vestito di lana per la moglie ma sotto sotto siamo una massa di ratti a caccia di schifezze da mangiare, di un altro ratto da ingroppare, di una crepa tra i mattoni in cui fare una tana, e poi lordarla al punto che alla fine il nostro contributo al mondo si riduce a un mucchio di escrementi".
Nata a Portland, nel Maine, Elizabeth Strout vive a New York con il marito e la figlia. Si laurea in Letteratura inglese e in Giurisprudenza e, dopo una breve parentesi lavorativa in campo legale, insegna presso il Dipartimento di Anglistica del Manhattan Community College di New York. Il suo esordio letterario risale al 1982, anno nel quale pubblica un racconto sul magazine "New Letters". In seguito, altri racconti sono apparsi in numerose riviste d'oltreoceano, tra le quali il "New Yorker". Con Amy e Isabelle nel 1999 si aggiudica l'Art Seidenbaum Award e viene candidata al PEN/Faulkner Award e all'Orange Prize for Fiction. Nel 2009 ottiene il Premio Pulitzer per la narrativa con Olive Kitteridge, romanzo che nel 2010 le ha permesso di ottenere in Italia il Premio Bancarella.
[da un'intervista di Silvia Albertazzi, Il Manifesto, 15 settembre 2017]
In Tutto è possibile, lei ha ripreso la struttura della sua opera più famosa, Olive Kitteridge, e la protagonista del suo ultimo romanzo, Mi chiamo Lucy Barton. Perché ha sentito il bisogno di scrivere ancora di Lucy e di farlo in un romanzo di racconti, com'era, appunto, Olive Kitteridge?
Mentre lavoravo a Lucy Barton, mi appassionavano particolarmente le scene in cui Lucy e sua madre parlavano dei loro conoscenti; quelle persone mi affascinavano; volevo saperne di più. E così ho scritto a parte delle scene che li riguardavano.
Quindi sapeva già che la storia di Lucy avrebbe avuto un seguito?
Sì, lo pensavo. E quando ho finito di scrivere Mi chiamo Lucy Barton, mi sono accorta che avevo un nuovo libro quasi pronto e che, in certo modo, era già pronta anche l'architettura del libro. Era come se potessi vedere una costellazione di personaggi e mi rendessi conto di come si sovrapponevano l'un l'altro.
È perciò che la struttura per questo tipo di lavoro non poteva che essere il romanzo di racconti?
Sì, certo. Vede, a me non interessa come gli altri lo definiscono. Per me è narrativa. Io non penso in termini di racconto o romanzo, ma se proprio devo scegliere, lo chiamerei romanzo.
Lei crede davvero che ognuno di noi porti sulle spalle il peso delle proprie origini per tutta la vita?
Mi fa molto piacere che lei abbia notato questo punto. Non provengo da una situazione di estrema povertà come quella di Lucy, il suo passato non è il mio, ma vengo anche io da un'umile provincia che ho lasciato per trasferirmi in città. So che cosa vuol dire traslocare da una piccola città a una metropoli: è qualcosa che la maggior parte delle persone con cui sono cresciuta non ha mai provato. Ho cambiato tanti lavori nella mia vita, perché volevo fare la scrittrice mantenendomi da sola: ho fatto la segretaria nello stesso college in cui avevo studiato, e ho visto come i professori fossero ben poco gentili con me quando sono diventata, in qualche modo, una dipendente: questa per me è una manifestazione di classismo. Ho lavorato in un sacco di ristoranti, insieme a donne che avevano fatto quel lavoro per tutta la vita; ho suonato il piano nei bar; ho persino venduto materassi. Queste esperienze mi hanno permesso di acquisire tante prospettive sul mondo del lavoro, e confluiscono nella mia scrittura.
Nel suo ultimo libro c'è anche un sentimento che unisce in maniera trasversale, come un filo rosso, tutti i personaggi, indipendentemente dalla loro classe sociale: la vergogna.
Sì, è vero. Mentre scrivevo, non me ne rendevo conto: sentivo una scena, la scrivevo, controllavo che avesse un cuore pulsante e passavo oltre. È solo quando ho messo insieme il libro che mi sono resa conto di questa vergogna generalizzata, e ho realizzato che aveva un senso, in relazione alle umili origini di molte di queste persone.
E tuttavia, anche personaggi che provengono da classi sociali più elevate sono oppressi da un senso di vergogna nel suo libro: per qualcosa che è accaduto nelle loro famiglie, o qualche segreto nascosto nelle loro vite. E tutti, a prescindere dalla loro classe sociale, sono vittime di traumi. Per questo mi domando se dobbiamo interpretare ironicamente il titolo del libro, «Tutto è possibile»...
No, non è ironico: nelle mie intenzioni dovrebbe significare che tutto è possibile purché si verifichi un momento di grazia, il che è possibile sempre, anche per chi mai avrebbe pensato di sperimentare qualcosa del genere.
[da un'intervista di Gabriele Santoro, Il Messaggero, 12 settembre 2017]
Nel romanzo emerge l'urgenza, che non è pretesa, di essere accolti. Ciò che più impressiona di queste storie è lo stupore per la gentilezza, che giunge inattesa anche da estranei.
«Sì, succede nel romanzo, anche nel silenzio s'instaurano momenti di connessione che è comprensione. Nella domanda c'è veramente il significato del titolo Tutto è possibile, che riguarda quegli istanti di grazia che possono manifestarsi in modo inatteso alle persone che non credono più possa accadere loro. Il desiderio di essere compresi, e la paura di non esserlo, restano universali».
Quale ricchezza narrativa conserva la provincia?
«Ritengo che il mio interesse per la provincia statunitense dipenda soprattutto dall'illusione che coltivano le persone di una piccola città di conoscersi reciprocamente. Non è così, e lo adoro. Camminando lungo la strada principale di una cittadina le stesse persone si salutano da trent'anni senza sapere nulla dell'altro. Oppure sviluppano e sedimentano, spesso senza alcun fondamento, per anni un'idea su chi sia la persona che percorre le stesse strade. L'inconoscibilità in quanto scrittrice deve interessarmi. Il paesaggio interiore e quello esteriore disegnano, conducono al mio mondo: l'idea che ognuno abbia la propria vita ordinaria e poi esista un altro universo, e la mia scrittura è animata dal come interagiscono».
Viviamo circondati da paure antiche e nuove. I suoi personaggi ne manifestano molte. In che modo riesce a esprimere l'incapacità di contestualizzarle ed elaborarle?
«È una questione centrale. A sessantuno compiuti non ho perso la fascinazione dell'ascoltare, dell'osservare e la meraviglia per ciò che anima le persone come la paura. Ora sento di poter comprendere più a fondo le emozioni. Per amare un personaggio, e devo ammettere che i miei li amo un po' tutti, deve suscitarmi un sentimento speciale. Non mi interessa che si comporti bene o metterlo all'indice. Deve trasmettermi quel sentimento, altrimenti non sarà parte del libro. Lo faccio entrando dentro di loro mentre bruciano, sono soli, riesco a scovarlo in qualche modo. Ciò mi fa sentire bene».
[da un'intervista di Leonetta Bentivoglio, Repubblica, 31 agosto 2017]
Sullo sfondo delle minute storie private di Tutto è possibile premono gigantesche ferite collettive. Innanzitutto la follia sanguinosa delle guerre che deturpano interiormente gli esseri umani.
"Questi piccoli racconti, effettivamente, sono condizionati da grandi eventi distruttivi. Il padre di Lucy non avrebbe dovuto uccidere delle persone ma lo ha fatto, con esiti atroci. Gli è capitato di essere nei posti peggiori della seconda mondiale ed è tornato a casa in un momento storico in cui gli uomini non parlavano delle esperienze vissute al fronte. Tali mutismi sono un aspetto spiccatamente americano. O lo sono stati fino alla guerra in Vietnam, quando al fenomeno fu dato il nome di disordine post-traumatico da stress. In molti possono attraversare la guerra per poi tornare a casa e andare avanti. Altri no, e sono loro che cerco di descrivere per comprendere come possano convivere con l'orrore silenzioso che li separa dal resto del mondo".
Una brutale visione della sessualità pervade Tutto è possibile: mai un sesso gratificante e risolto. Se in una coppia c'è tenerezza non c'è sesso, come nel caso di Patty e il marito. Al centro di un racconto c'è un violento erotomane. Ed è tremendo, per alcuni adulti di Amgash, il segno degli abusi subiti nell'infanzia.
"Nel libro in molti hanno problemi sessuali. Ma non pensa che in generale siano diffusi i problemi riguardo al sesso? Oggi non accade più di ieri: è avvenuto in qualsiasi periodo storico. Possiamo supporre che alcuni personaggi di Tutto è possibile conducano vite sessuali soddisfacenti o a un certo punto riescano ad averne una. Ma non serve che io mi occupi di loro. Ciò che m'interessa sono le difficoltà che affrontano e il modo in cui le superano o no. Comunque il puritanesimo americano non aiuta!".
Restituire l'effervescenza di una discussione in cui si è direttamente coinvolti non è mai semplice. Di seguito trovate alcune questioni sulle quali il gruppo ha voluto riflettere mettendo in gioco diversi punti di vista e diverse sensibilità:
- ANDREW WYETH, Wind from the Sea, 1947, olio su tela, National Gallery of Art, Washington
- ALBERTO BURRI, Il cretto di Gibellina, opera di Land Art
- FILM: LASSE HALLSTRÖM, Buon compleanno Mr. Grape, 1993